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Story Publication logo June 30, 2023

The Human and Environmental Price of Açai, the Purple Berry (Italian)

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A person looks out on a reservoir
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This project investigates environmental neocolonialism, its mechanism, and its consequences on the...

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A child is shown next to baskets of açai harvested by him and other minors. Image by Karl Mancini. Brazil.

The elixir of life of the West is harvested by children on Brazilian palms.

It is a nugget two centimeters in diameter and one gram in weight, but the benefits it brings to the skin and health make it a "superfood." For a 35-kilogram (77-pound) basket, children climb palm trees of 30 meters (98 feet), putting their lives at risk. Meanwhile, monocultures make a clean sweep of biodiversity and thousands of liters of water.


Il prezzo umano e ambientale dell’açai. La bacca viola, elisir di lunga vita dell’Occidente, raccolta dai bambini sulle palme brasiliane

Coltello in mano, corda alla caviglia, coraggio nel cuore. Sali, ragazzino, sali. Arrampicati fino al paradiso di noialtri. Scala fino alla cima del nostro benessere. Ce la fai, se pesi poco. E se hai nove o dieci anni, non di più. Non sarai mai un“hombre sincero di dove cresce la palma”: sarai per sempre un menino de rua che, sotto la palma, ci muore. Ma che importa: l’açai è l’elisir di lunga vita dei ricchi, il Salvator Mundi d’europei e americani, arabi e cinesi. Di chi s’illude di rallentare l’età, non si fa scrupolo d’ignorare la pietà e contro il logorio della vita moderna, come diceva un antico spot, se le beve tutte: ricordate la papaya antinvecchiamento da sciogliere sotto la lingua? O la melatonina contro le rughe? La carnitina che toglieva la fame? I fiori di Bach emozionali? Quanti miti caduti. La leggenda del santo beverone, l’ultima, ci narra oggi le meraviglie dell’açai. E lo fa attraverso le immagini che vedete in questo reportage Karl Mancini, un lavoro fotografico realizzato in collaborazione con il Pulitzer Center on Crisis Reporting.

È una pepita di due centimetri di diametro e un grammo di peso, ma i benefici che apporta a pelle e salute la rendono un “superfood”. Per una cesta da 35 chili pagata 22 euro, i più piccoli e leggeri scalano palme di 30 metri, mettendo a rischio la loro vita. E le monocolture fanno piazza pulita di biodiversità e migliaia di litri d’acqua


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Quest’amazzonica bacca degli dèi che sembra un’uva senza buccia, pesa un grammo, ha due centimetri di diametro e promette mille miracoli. Antiossidante, meglio del mirtillo o del lampone. Anti-age, quasi come il melograno o un bicchiere di vino rosso. Superfood di polifenoli e omega vari, triple vitamine e calcio, fosforo e fibre, aminoacidi e minerali. Functional food che fa bene ai capillari e rigenera i bicipiti, brucia i grassi e azzera gli zuccheri, lustra il colon e sazia lo stomaco, aiuta l’immaginazione e stimola l’erezione, lucida la pelle e lava il fegato, placa l’artrosi e abbassa il colesterolo, cura l’obeso e tiene d’occhio la prostata, fertilizza i terreni e nutre gli animali: manca solo che paghi il mutuo di fine mese e la domenica pulisca pure la macchina… L’oro viola è una pepita molliccia e polposa che frutta lassù, dove solo i bambini possono arrivare e dove ogni giorno migliaia di piccoli brasiliani s’avventurano in pericoloso equilibrio, oscillanti su esili palme, trenta metri nel cielo.


L’estuario del Rio delle Amazzoni nello stato brasiliano di Parà dove crescono le palme di açai, il cui elevato consumo sta portando all’impoverimento del terreno. Immagine per gentile concessione del Corriere Della Sera.

Le vite a rischio di migliaia di peconheiros

Li chiamano peconheiros: per raccogliere i grandi grappoli da centinaia di drupe, dividerne il nocciolo dal succo, guadagnano nulla e si giocano tutto. Leggeri e rapidi come scoiattoli. Scuotono le foglie, sfilano le bacche, riempiono le ceste, fan piovere ricchezza, purple rain. E qualche volta precipitano nelle paludi. Morendo, mutilandosi, finendo paralizzati per sempre. Le mani ancora sporche del più sporco dei viola. L’ambrosia di Parà Purple Gain. La corsa all’oro viola è cominciata una ventina d’anni fa. Quando Madonna e Kate Moss impararono a pronunciarne il nome, “asaì”, e ne divennero le testimonial. All’epoca lo prendevano Oprah Winfrey e i surfisti californiani, lo servivano nelle lounge della Cool Britannia, lo spacciavano nelle palestre jujitsu di Tokyo. Gran scoperta, questa bevanda preparata fra gli indìgenas sull’estuario del Rio delle Amazzoni, i quilombolas e i ribeirinhos, considerata da tremila anni l’ambrosia con cui svezzare i neonati, curare le convalescenze, dare energia senza mangiare. A quell’epoca, l’açai era una bacca ancora sconosciuta al mondo: si vendeva solo al mercato del Ver O Peso di Belém, la capitale dello stato brasiliano del Parà, arrivava con le barche dalle isole vicine, Combu e Marajò, e l’abitudine era di consumarla in giornata, freschissima, perché più d’un giorno non resiste.


Viktor, 9 anni, riempie sette ceste di açai al giorno quando lavora con i genitori; raccoglitori di açai che staccano le bacche dai rami. Immagine di Karl Mancini.

La biopirateria delle Big Pharma

Fu la biopirateria, a eternarla e a farne una promessa d’eternità: quell’industria Big Pharma che da almeno un secolo sfrutta i cinque milioni di chilometri quadrati dell’Amazzonia, la più grande miniera di biodiversità della Terra (ci vola un quinto di tutti gli uccelli del mondo; ci vivono due milioni e mezzo di specie d’insetti; ci crescono duecentomila specie di piante, e solo il venti per cento studiato in farmaceutica...). Furono americani e giapponesi a osservare tre popolazioni caboclo, che avevano sempre fatto dell’açai la dieta quotidiana, e gli effetti dei “frutti più nutrienti della foresta amazzonica”. Capendo che l’Euterpe Oleracea, in realtà, poteva essere lavorata a basse temperature e consumata con comodo. Polverizzata, disidratata, congelata, liofilizzata. Trasformata in purè o in olio, in succo o in integratore, in dolci o vellutate, pappette o capsule. Conservabile con scadenze fino a quindici anni, quindi esportabile in tutto il mondo e commercializzabile online.


Un team di produzione al lavoro in un’industria di trasformazione di açai. Immagine di Karl Mancini.

Il frullato preferito dai brasiliani

Ai brasiliani, l’açai è sempre piaciuto in versione na tigela: un frullato arricchito di succo d’arancia e decorato con granella, cereali tostati e fettine di banana. Sballa la pressione? È pericoloso in gravidanza? Contiene parassiti e a volte provoca allergie, con vomito e diarrea? Pazienza: non sono mai state queste controindicazioni a frenare la moda, anche se neppure l’autorità alimentare europea (Efsa) ha mai certificato le proprietà di questo frutto e in materia non esiste molta letteratura scientifica: una decina di studi completi, qualche test su animali o perlopiù in vitro, poco altro. Dettagli, dicono i maghi del marketing: non è forse vero che gl’indios, per secoli, han fatto ricorso ai segreti dell’Amazzonia per curarsi da tutte le malattie? E che per ogni sintomo c’era sempre sottomano una pianta, una conoscenza tramandata di generazione in generazione? Tosse: ecco lo sciroppo di corteccia di copaiba! Ferite: avanti con le frizioni all’olio d’andiroba! Diarrea: radici di marupazinho sciolte nel tè! Alla fine, così è stato anche per l’açai del Parà.


Operaio trasporta l’açai destinato al mercato di Ver-o-Peso da tutta la regione e dal Marajòo dello Stato. Immagine di Karl Mancini.

La bancarella dell’ortolano globale

Finito sulla bancarella dell’ortolano globale come il kiwi neozelandese e la papaya messicana, consumato in palestra tipo frutto della passione o litchi della Cina, venduto nei negozi bio assieme alle bacche tibetane di Goji e all’acerola paraguaiana, esposto nelle erboristerie tra la graviola tropicale e l’anacardo amazzonico, citato sempre nella filastrocca dell’esotismo salutista che via via ci ha portato in frigorifero il cupuaçu e lo jenipapo, il tapareba e il bacurì, la guaiava e il mastruz… Nei primi dieci anni di sfruttamento intensivo, l’esportazione di bacche viola è aumentata del 1.500 per cento. I guadagni si sono moltiplicati per trenta. Le aree convertite a questa monocultura sono triplicate. E se in luoghi simbolici come Açailândia, città nata dal nulla e con un destino nel nome, negli Anni 90 era ormai troppo tardi per cambiare rotta, ritornare all’agricoltura e rinunciare al ricco Pil garantito dalle miniere di ferro, nel resto del Parà no: ci sono luoghi, come l’isola di Yagaré Xingu, dove molte famiglie hanno abbandonato la pesca e qualsiasi altra attività per dedicarsi solo all’açai. Hanno imparato a lavare le bacche, a scolarle, a macerarle, a raffinarne la polpa in setacci a maglie larghe e più sottili, a filtrarle fino a ottenere un succo denso e cremoso. A sognare una nuova ricchezza, anche se naturalmente nessuno di questi contadini improvvisati è il proprietario dei terreni dove si raccoglie l’açai. E ognuno rischia d’essere cacciato da un momento all’altro.

Impossibile competere con le multinazionali

E in definitiva, è impossibile competere coi prezzi delle multinazionali (in questi anni non c’è mai stata molta preoccupazione per i destini dei raccoglitori: da Slow Food ai missionari cattolici, tutti a benedire l’açai che in fondo consentiva agl’indios di «usare la foresta senza tagliarla, distruggerla o incendiarla», come spiegò il vescovo francescano di Marajò, dom Evaristo Spengler. Un ettaro d’açai rende 6.700 dollari l’anno, contro gli 820 della soia che ha deforestato l’Amazzonia. Meglio vendere una bacca che rubare il legname, allevare vacche, costruire centrali idroelettriche, estrarre oro, invadere tutto di soia e solo di soia, asfissiando il polmone verde del mondo e arricchendo i ricchi di sempre).

Il frutto che piange e i dolori del Parà

Purple Pain. Tradotto dai dialetti dell’Amazzonia, açai significa “il frutto che piange”. E come fosse amaro, s’è visto presto. Bacca della rinascenza e, insieme, della sofferenza. In molte zone, oggi il Parà è una terra impoverita, sventrata dalla miseria e dalla violenza, deforestata e alcolizzata. È anche lo stato dove s’ammazzano più persone che lottano per il diritto alla terra: ogni dieci morti fra i contadini brasiliani, nove vivevano da queste parti. Dal 1995 al 2018, in tutto il Paese sono stati liberati 55mila lavoratori schiavi: la metà stavano qui. Nel Parà hanno votato tutti Lula, perché era una follia stare col Bolsonaro amico dei fazendeiros, ma nessuno s’aspetta che col nuovo presidente la corsa all’oro viola si faccia meno frenetica. In uno straordinario reportage, il fotoreporter Karl Mancini ha raccontato la fatica degli operai bambini e quanto poco guadagnino – ventidue euro e mezzo per ceste da 35 chili di bacche, trenta palme da scalare per riempire una sola cesta –, rivendendo sottocosto ai grandi gruppi alimentari che esportano l’açai in America e in Europa.


 Le bacche vendute anche come surgelato. Immagine di Karl Mancini.

Ogni palma ha bisogno di 100 litri d’acqua

Il prezzo umano è alto, quello per l’ambiente altissimo. Ogni palma ha bisogno almeno d’un centinaio di litri d’acqua l’anno e la febbre viola ha fatto piazza pulita d’ogni biodiversità: un tipico esempio di monocultura imposto dalle leggi del mercato e dall’illusione del facile real, dagl’infernali ritmi di raccolta già visti col pepe e col cacao, con la canna da zucchero e la noce brasiliana, con la gomma e col dendé, con tutte le coltivazioni utili al Nord del mondo. L’açai è diventato il nostro salvavita, salvapelle, salvacapelli, salvapeso, salvatutto. Ma chi salva i nostri salvatori?

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