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Story Publication logo March 21, 2024

In the Hills of Chile, Where the Water Is Used for the Green Gold Monoculture and the Population Has To Drink From Tank Trucks (Italian)

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A person looks out on a reservoir
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This project investigates environmental neocolonialism, its mechanism, and its consequences on the...

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An English summary of this report is below. The original report, published in Italian in Corriere Della Sera, follows.

Three hours' drive from the Chilean capital, the villages of Petorca, Cabildo, and La Ligua are held hostage by water ultra-liberalism and 13 years of drought.

Privatized aquifers, illegal dams and pipelines, unlimited drilling, and the massive production of avocado: All this prevents locals from even letting children bathe.


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Sulle colline del Cile, dove l’acqua viene usata per la monocoltura dell’oro verde e la popolazione deve bere dalle autobotti


Immagine per gentile concessione del Corriere della Sera. Cile.

Prendete un avocado e tagliatelo in due. Estraete il nocciolo e posate la polpa in un mortaio. Aggiungete succo di lime e poi pestate, pestate forte, pestate a lungo... Spiaccicate quanto vi pare, con l’antico moljaete dei Maya o col frullatore a immersione. Metteteci il tabasco o il coriandolo. Accompagnate coi nachos o coi toast. Ma una cosa dovete saperla: che guaio che è, il guacamole. Quando lo preparate, se arriva da una provincia del Cile grande come il Molise, state spappolando un avocado e insieme mandando in pappa una terra, un popolo. E lo stesso se vi fate uno smoothie, se mangiate un poke, se v’idratate con una crema anti-age.

A tre ore d’auto dalla capitale, Petorca, Cabildo, La Ligua sono i villaggi ostaggio dell’ultraliberismo idrico e di tredici anni di siccità. Falde privatizzate, dighe e tubazioni abusive, perforazioni senza limiti e produzione massiccia dell’avocado: tutto questo impedisce ai locali anche solo di far fare il bagno ai bambini

È per questo che i cileni se ne stanno andando via da posti che si chiamano Petorca, Cabildo, La Ligua, San Antonio, da una siccità che negli ultimi tredici anni non ha dato pace. I fiumi sono seccati, i pozzi esauriti, un bovino su due muore di sete e cento cileni su cento si dissetano, si lavano, irrigano solo coi camion cisterna. Colpa del cambiamento climatico, certo. Di un’aridità che non si vedeva da settecento anni. Ma colpa pure di chi si è preso l’acqua, togliendola agli uomini, per darla alle coltivazioni. Il “testicolo degli dèi” – come gli aztechi chiamavano l’avocado – ha generato un Cile grande esportatore mondiale, il terzo. E una landa assetata, nella provincia di Petorca. Dal cielo nulla piove, dalla terra null’altro cresce. “No es sequìa, es saqueo!”, c’è scritto sul muro d’ingresso d’una finca abbandonata: non è siccità, è saccheggio. 

La monocoltura invade tutte le colline settentrionali, a tre ore d’auto da Santiago. Beve l’acqua a disposizione. Porta tanti soldi a pochi latifondisti e un bel po’ di disperazione a migliaia d’agricoltori. “Estamos secos”, è oggi l’intercalare più usato: in quel “secos” c’è la rassegnazione degli ottantamila abitanti di Petorca che ancora si ricordano di quando s’andava a nuotare nei due fiumi della zona, mentre oggi guardano alvei asciutti e ridotti a discariche.

Ultraliberismo idrico

Fu allora che cominciò la tragedia: ai tempi duri del Cile del dittatore Pinochet, della povertà contadina e di quella maledetta controriforma agraria che nel 1981, primo caso al mondo, privatizzò totalmente l’acqua. Fu allora che il delirio d’un ultraliberismo idrico spinse a distinguere la proprietà delle terre da quella delle sorgenti, a stabilire che la priorità non era più dar da bere agli assetati, ma semmai rendere più profittevoli i campi, le miniere, le centrali idroelettriche. Si decise che qualunque privato poteva comprarsi i diritti d’uso sui pozzi e che il governo era obbligato a venderli: avanti coi permessi illimitati nel numero, perpetui nella durata, e non importava se poi le licenze venivano davvero utilizzate...

Fu allora, l’inizio della fine. Con una liberalizzazione selvaggia che in realtà nascondeva libere speculazioni, metteva i terreni migliori nelle tasche delle solite grandi famiglie – i parenti di Pinochet, per esempio, acquistarono e chiusero tutti gli accessi alle rive del Ligua – e preparava la Green Gold Rush, la corsa all’oro verde.

Benefici per pochi

Non si sa chi lo piantò, il primo avocado. Spuntarono vent’anni fa e subito fu un boom di posti di lavoro, di code nei campi per lavorare ai raccolti, di soldi veloci in una delle aree più depresse del Cile. Quanto benessere, quanti beneficiati. Que viva Chile! Ci volle poco a capire, però, che la corsa era truccata e ad arricchirsi erano solo i produttori. Che molti braccianti erano a brevissimo termine. Che la vita di tutti era, in realtà, migliorata di poco. Pian piano, apparve chiaro che i ricchi s’erano accaparrati le cime delle colline e le rive dei fiumi e le falde, con tutti gli altri rimasti in basso.

Dighe illegali, tubazioni abusive per decine di chilometri, perforazioni senza limiti, nessun controllo. Basta guardare oggi il paesaggio intorno a Petorca: sopra si vede il verde delle piantagioni, tremila alberi per ettaro, l’irrigazione pompata da pozzi scavati sempre più in profondità; sotto ci sono terre grigie e aride, punteggiate qua e là da enormi bacini d’acqua costruiti per alimentare le coltivazioni.

Lotte per l’acqua

Dice la Fao, l’organizzazione Onu per la lotta alla fame, che questo fenomeno si riscontra in tutto il mondo e il settanta per cento delle fonti idriche è ovunque destinato allo sfruttamento economico. L’umanità assetata deve accontentarsi di quel che resta: molti Paesi, dall’Arabia al Pakistan, provano a potenziare i sistemi d’ossigenazione delle acque reflue o sperimentano una microalga verde (la spirulina) ricca di proteine che rinforza le piante sotto siccità, ma i tempi di riconversione sono lunghi e le emergenze pressano. Per difendere il diritto all’acqua, sul Nilo come sull’Indo, scoppiano sempre più guerre: erano una quindicina negli anni 90, sono diventate una settantina oggi.

Anche in questo pezzo di Cile lo scontro è esasperato. L’acqua è riservata alle coltivazioni lassù, abbondantemente bagnate ogni giorno. Gli uomini devono arrangiarsi quaggiù con le autobotti d’emergenza finanziate dal governo: spesso un liquame giallastro, che puzza di cloro ed è pieno di coliformi. La famiglia Barrios – un marito che un tempo lavorava nei campi e ora campa facendo il tassista – ha diritto solo a cento litri d’acqua al giorno, contro i duecento che servono a far crescere un avocado. C’è un’ordinanza del governatore che vale per tutta la provincia: vietato lavare l’auto, bagnare strade e cortili, annaffiare i giardini, perfino riempire le piscinette per i bambini. A Petorca, i centomila litri necessari ad annaffiare un ettaro di coltivazioni soddisferebbero, in un solo giorno, i bisogni di mille persone. L’acqua è un diritto umano essenziale, stabilisce una risoluzione Onu del 2010, ma in Cile no: ci sono 189 comuni in emergenza idrica, otto milioni di persone con problemi d’approvvigionamento, decine d’ospedali e di scuole che faticano a funzionare perché l’acqua a uso pubblico è gratis, ma poca, mentre abbonda e costa carissima quella posseduta da pochi.

I movimenti di protesta popolare

A Petorca, i centomila litri necessari ad annaffiare un ettaro di coltivazioni soddisferebbero, in un solo giorno, i bisogni di mille persone. L’acqua è un diritto umano essenziale, stabilisce una risoluzione Onu del 2010, ma in Cile no: ci sono 189 comuni in emergenza idrica, otto milioni di persone con problemi d’approvvigionamento, decine d’ospedali e di scuole che faticano a funzionare perché l’acqua a uso pubblico è gratis, ma poca, mentre abbonda e costa carissima quella posseduta da pochi.

L’ultimo Paese al mondo che privatizzò le sue falde ha capito che così non si può continuare. E ha provato a cambiare. Ma il referendum per la nuova Costituzione cilena, che nel 2022 doveva archiviare l’era Pinochet e le sue disastrose riforme, a sorpresa non è passato. E in questa provincia s’è persino faticato a raggiungere il quorum: raccontano che i seggi di Petorca, il giorno del voto, erano presidiati dai latifondisti e che la gente impaurita, scegliendo se salvare l’ambiente o salvare il lavoro, alla fine non ha avuto dubbi. 

Tutto è rimasto come prima: 464 privati che controllano pozzi e bacini, trenta grandi aziende che detengono il 60 per cento dei diritti d’uso. E guai a chi s’oppone. Qualche anno fa è nato un movimento di protesta popolare, il Modatima: il suo leader, Rodrigo Mundaca, un ingegnere esperto d’agraria, è stato processato 24 volte in tre anni con le accuse più fantasiose. Le minacce di morte non si contano più e qualche giudice coraggioso ha provato a vederci chiaro, ma le 167 ispezioni e le 377 inchieste sullo strapotere dei produttori – gruppi che si chiamano Cabilfrut, Hass Avocado Board, Baika – hanno portato solo a qualche sanzione amministrativa, poco altro.

Il lato nascosto dell’avocado

La lobby è potente: s’affida al greenwashing finanziando campi sportivi per la popolazione, centri sociali, chiese, inviando delegazioni in Europa a convincere che «la provincia di Petorca riceve solo benefici dalla creazione di questa ricchezza» (parole del produttore David Bosch). In Parlamento, la coalizione Chile Vamos ha fatto una dura opposizione da destra a una nuova legge sui diritti idrici — «è contro il diritto di proprietà!» — e ha finito per spuntarla: d’ora in poi le concessioni private non supereranno i trent’anni, ma il limite di tempo non s’applicherà al novanta per cento delle licenze già assegnate. 

«Quando importate il nostro frutto, state importando la nostra acqua!», è uno degli slogan della protesta. Rivolto a cinesi, americani, europei, a tutti i maggiori consumatori. Vero: in tutta questa faccenda c’è un “neocolonialismo ambientale”, dice il fotoreporter Karl Mancini che ha passato lungo tempo a Petorca, e qualche domanda dovremmo farcela. La varietà Hass, quella a buccia nera, la più gustosa, fa quindicimila chilometri per arrivare sulle nostre tavole: tre settimane di viaggio, in frigo a cinque gradi, dove matura artificialmente con l’etilene. Ci vogliono più d’un mese e diversi trattamenti, prima che un Hass sia consumato, e questo spiega i quattro euro al chilo del prezzo all’ingrosso. «Ma se a questa cifra aggiungeste il costo dell’acqua», dice l’ingegner Mundaca, «dovreste pagarlo almeno al doppio...». 

Il Cile è già sott’osservazione internazionale per i suoi allevamenti intensivi di salmoni, imbottiti d’antibiotici, che molte catene di distribuzione preferiscono evitare. Ora, i supermercati inglesi e danesi stanno cominciando a rivedere anche le forniture d’oro verde. Perché in spagnolo l’avocado si chiama aguacates: agua, come acqua. E c’è un destino senza scampo, in quel nome.

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